Ci sono esperienze che iniziano molto prima della loro data ufficiale. La mia partecipazione al Giubileo del Mondo Educativo è cominciata in un giorno qualunque di luglio, quando una telefonata ha interrotto un pomeriggio ordinario per propormi qualcosa che non mi aspettavo. Ho esitato, lo ammetto: non sapevo se avrei avuto una chiara idea di cosa mi avrebbe atteso. Però, dopo qualche ora di riflessione, ho dato conferma. Sembrava una decisione rapida, quasi istintiva, e invece, da quel momento fino alla partenza di ottobre, quella scelta ha continuato a lavorare dentro di me, maturando lentamente come fanno spesso le decisioni che contano.
Quando finalmente è arrivato ottobre, e con esso l’inizio dell’evento, ho percepito una trasformazione: i dubbi iniziali si mescolavano alla curiosità, e il clima che ho trovato ha dato subito un contesto alle mie domande. Gli ospiti che hanno aperto i lavori — educatori, studiosi, responsabili, operatori della formazione — hanno delineato un quadro complesso ma accessibile, capace di tenere insieme aspetti teorici e concrete testimonianze quotidiane. Le loro prospettive erano diverse, ma convergevano su un punto: l’educazione non è un atto isolato, ma un processo che vive di relazioni, di responsabilità condivise, di sguardi che si incrociano.
Dentro questa cornice mi sono sentito, gradualmente, parte di qualcosa di più grande del mio ruolo individuale. Ho imparato che ogni orizzonte che incontriamo apre possibilità nuove, e questo evento ne offriva molte: idee che spostavano punti di vista, racconti che davano voce a realtà lontane, domande che rompevano schemi dati per scontati.
L’istruzione, ho realizzato ancora una volta, non è semplicemente un insieme di dati e competenze: è un modo di stare nel mondo, di osservare, di interpretare, di crescere. È, prima di tutto, una relazione. Eppure ciò che più mi ha accompagnato, anche nei giorni successivi, è stata la riflessione sulla natura effimera delle esperienze. Una riflessione che ha radici antiche e moderne allo stesso tempo.
Chiunque abbia letto certe storie — antiche come l’Iliade, o moderne come Tolstoj — conosce questo sentimento: l’istante che vale perché non torna. È una consapevolezza che attraversa i poemi epici e i grandi romanzi storici, e che l’esperienza del Giubileo mi ha fatto ritrovare in modo concreto e quasi tangibile. E con Tolstoj ritorna anche un’altra idea, forse ancora più attuale: che la storia non è fatta solo dai grandi eventi o dai protagonisti più visibili, ma da ogni singola persona che vive il proprio momento con autenticità. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, contribuisce a orientare il corso delle cose. Nel contesto del Giubileo, questo pensiero si è tradotto in una consapevolezza semplice ma potente: anche i nostri gesti, le nostre parole, le nostre scelte educative, entrano a far parte di un racconto più grande, che ci supera e al tempo stesso ci appartiene. Ogni intervento ascoltato, ogni conversazione avuta, ogni impressione registrata apparteneva a uno spazio-tempo preciso, destinato a non tornare. E proprio questa unicità ne aumentava il valore. Non è il ripetersi delle esperienze a renderle importanti, ma la loro irripetibilità.
L’effimero non è un vuoto: è una forma di densità. Ci obbliga a essere presenti, attenti, disponibili a lasciarci colpire da ciò che accade. Questa consapevolezza è stata ancora più forte pensando che questo primo evento dedicato all’istruzione si ripeterà solo fra un quarto di secolo. Venticinque anni sono un arco di tempo capace di cambiare quasi tutto: le nostre vite, le nostre prospettive, i contesti sociali ed educativi in cui ci troveremo. Quando tornerà, guarderemo all’esperienza di oggi con occhi nuovi, filtrata dal tempo trascorso e dalle responsabilità che avremo assunto. E ciò che resterà non sarà la cronaca precisa dell’evento, ma ciò che ha depositato in noi, i gesti che ha orientato, le idee che ha fatto nascere, le emozioni che ha suscitato. Per tutto questo non si può chiudere senza riconoscere il valore di chi accompagna questi percorsi: chi li guida con lucidità, chi prepara e sostiene il lavoro invisibile, e chi partecipa con disponibilità, trasformando un insieme di incontri in un’esperienza condivisa e significativa. Sono queste persone, con la loro presenza concreta, a dare forma a ciò che altrimenti sarebbe solo un’agenda di appuntamenti.
Riguardando all’esperienza dall’inizio — dalla telefonata estiva a luglio, alla decisione presa nel giro di poche ore, fino all’arrivo di ottobre — capisco che l’educazione assomiglia davvero più a una storia che a un sistema: si compone di capitoli successivi, di incontri che cambiano la direzione, di tentativi e di aperture inaspettate. E come nelle grandi narrazioni, ciò che rimane non è solo ciò che accade, ma ciò che quell’accadere continua a generare nel tempo.
Ogni passo compiuto — anche quello nato da un’iniziale titubanza — può diventare parte di un cammino che continua ben oltre il momento in cui lo si compie.
Lorenzo Trudu, VA Scientifico