Ci sono esperienze che non si possono studiare sui libri, lezioni che non entrano in una verifica a crocette. A volte serve uscire dalle aule, attraversare cancelli pesanti e varcare porte che si chiudono rumorosamente alle spalle per incontrare l’altra faccia della libertà: quella negata, quella che si vive solo nei ricordi o nei sogni. È quello che abbiamo fatto noi, due classi quarte del Liceo, in visita a un Istituto Penitenziario. Un incontro che ha lasciato un segno profondo, dove le emozioni hanno preso il posto delle domande preparate e dove ogni sguardo ha raccontato più di mille parole.
L’ingresso in carcere è un rito che non si dimentica. Il metallo freddo del cancello, la voce ferma degli agenti, il controllo dei documenti, le borse lasciate in custodia. Poi, il primo portone si chiude e solo quando il secondo si apre si può proseguire. Già questo basta a far sentire sulla pelle la differenza tra “dentro” e “fuori”. Ad accoglierci, alcuni membri della polizia penitenziaria e un’educatrice. Parlano con calma, spiegano le regole, ma lasciano subito spazio all’incontro più atteso: quello con i detenuti. Entriamo nella biblioteca del carcere, l’unica sala colorata, con un po’di vita, un po’ di calore. Lì aspettano diversi uomini, diversi per età e origine, accomunati da una storia che ha cambiato il corso delle loro vite. Non ci sono sbarre tra loro. Solo un cerchio di sedie e una strana tensione nell’aria che presto si scioglie con un saluto semplice: “Ciao, benvenuti”.
Uno studente per classe ci presenta: comincia un dialogo che rompe i pregiudizi. Nessuno si alza in piedi a raccontare la propria colpa come in un’aula di tribunale. Parlano piuttosto delle loro giornate, dei pensieri che li svegliano nel cuore della notte, delle lettere ai figli, delle domeniche tutte uguali. Ci spiegano che quando ti trovi lì dentro scopri davvero chi sei. O chi sei diventato. Ogni errore lo rivivi cento volte. Le parole colpiscono come pugni. Alcuni di noi abbassano gli occhi, altri li tengono fissi su quei volti. È difficile ascoltare senza giudicare, ma è impossibile non provare empatia. Ci fanno capire che non vogliono compassione, ma vogliono solo che capiamo quanto è facile rovinarsi la vita con una scelta sbagliata.
È questo il filo rosso che lega tutte le testimonianze: la consapevolezza di avere sbagliato, ma anche il desiderio di non essere definiti solo da quell’errore. Un ragazzo del gruppo chiede: “Ma qual è la cosa che vi manca di più?”. Il silenzio che segue è quasi commovente. Poi, uno risponde: “I figli, le giornate passate con la famiglia”. Frasi semplici, ma cariche di nostalgia. Ci fanno capire che lì non si è mai soli, ma sempre osservati, anche dai tuoi pensieri. La libertà, per chi la possiede, è scontata. Per chi l’ha persa, è un’ossessione dolceamara. Qualcuno si stringe nelle spalle, qualcun altro scrive parole in un taccuino, quasi a voler salvare frammenti di un vissuto così lontano, eppure incredibilmente vicino.
Non meno toccante è stato l’incontro con il personale penitenziario. Agenti, educatori: figure spesso invisibili, ma fondamentali. “Non siamo qui per punire, ma per accompagnare,” spiega l’educatrice. “A volte è dura, perché l’ambiente è difficile e la società spesso ci vede solo come carcerieri”. Il carcere ti cambia, anche se lavori qui. La polizia penitenziaria ci spiega che un lavoro del genere ti obbliga a confrontarti con la parte più buia dell’animo umano, ma anche con la possibilità della rinascita.Sono parole che aprono uno squarcio su una realtà poco raccontata, fatta di tentativi quotidiani, piccole vittorie e grandi frustrazioni. Anche loro, in fondo, sono prigionieri di un sistema che spesso li lascia soli. Il rientro nella vita quotidiana ha il sapore di qualcosa che è cambiato. Lo si legge negli occhi di noi ragazzi mentre usciamo dal carcere. Nessuno ride, nessuno scrolla le spalle. Parlano a bassa voce, come per non disturbare il silenzio che si portano dentro.
Per molti di noi questo incontro resterà una delle esperienze più significative dell’intero percorso scolastico. Non tanto per ciò che abbiamo imparato, ma per ciò che abbiamo sentito. E forse, è proprio questo che la scuola dovrebbe fare più spesso: creare spazi dove l’educazione incontri la vita vera.
Ma la giornata non è finita: ci aspetta il viaggio all’interno della comunità di Sassari. Questa volta però l’ambiente è diverso, più aperto, meno severo. Non ci sono cancelli d’acciaio né porte blindate. La meta è una comunità di accoglienza a Sassari, che ospita detenuti in libertà vigilata o in misura alternativa al carcere. Uomini che stanno tentando, passo dopo passo, di riprendersi una vita, di riapprendere la libertà non solo come diritto, ma come responsabilità. Il pullman si ferma davanti a una strada sterrata. Non ci sono cancelli d’acciaio né muri alti, solo un’insegna modesta e il profumo intenso del sole sulla terra. “Benvenuti nella nostra comunità” dice un sacerdote. È il responsabile e ci tiene subito a chiarire: “Qui non si viene solo a scontare una pena. Qui si lavora, si suda, si sbaglia e si riprova. Qui si rinasce, se si ha il coraggio”. La comunità non è solo un rifugio o un’alternativa al carcere. È un luogo dove ogni gesto quotidiano ha un senso. Dove zappare, potare, innaffiare o mungere diventano atti di responsabilità, di presenza, di disciplina. La prima cosa che colpisce gli studenti è il ritmo. Non quello delle lezioni scolastiche, ma quello lento e regolare della natura. Qui il tempo lo detta la terra, non ci sono serrature, ma ci sono regole. La più importante è che ogni giorno va costruito con le proprie mani. Incontriamo gli uomini che vivono lì: persone che hanno lasciato il carcere dopo aver ottenuto una misura alternativa, ma che devono rispettare orari, percorsi terapeutici, e soprattutto contribuire alla vita della comunità. Ci spiegano che non sono liberi come pensiamo ma che respirano aria diversa. E che hanno la possibilità di tornare ad avere un ruolo, un’utilità. Anche se piccola. Per gli ospiti, il lavoro nei campi è un’opportunità concreta di reinserimento, ma soprattutto un modo per riscoprire il valore del tempo e dell’impegno. Non ci sono scorciatoie. Le parole sembrano semplici, ma scavano. Ci guardiamo, ascoltiamo, qualcuno prende appunti. Non si tratta solo di redenzione, ma di un processo lento, faticoso, a tratti doloroso, in cui la terra diventa metafora della vita stessa.Il momento più bello, più importante, arriva alla fine, quando noi studenti, dopo aver ascoltato riflessivi le esperienze degli ospiti della comunità, siamo stati invitati a partecipare attivamente, a raccontare qualcosa che ci ha colpiti, che ci saremo portati via dalla giornata: tutti abbiamo risposto, nessuno si è tirato indietro e questo ha permesso di crescere, prima come persone e poi come studenti.
Tornando verso casa ci schiariamo le idee, riflettiamo, pensiamo. C’è però un ultimo passo da compiere, l’incontro, questa volta dentro le mura scolastiche con un ex carcerato.
INCONTRO CON UN UOMO IL CUI PASSATO PESA COME PIETRA
Dopo aver varcato le porte del carcere e i cancelli della comunità agricola di Sassari, noi studenti quarte non ci aspettavamo che la testimonianza più intensa potesse arrivare proprio tra le mura familiari della scuola. Invece, è successo. In un’aula magna trasformata in spazio di ascolto, è arrivato un uomo il cui passato pesa come pietra. Ex 41bis, coinvolto per anni in attività criminali. Un uomo che oggi parla con lucidità, senza cercare sconti, ma con il chiaro intento di restituire qualcosa alla società che ha ferito. E forse, anche a sé stesso. Lui viene dall’inferno, ma non vuole raccontarci storie di mafia; vuole spiegarci cosa significa perdere sé stessi, ciò che accade quando si sceglie il male. L’aula è piena. Docenti, studenti, personale penitenziario. Eppure nessuno si muove, nessuno distoglie lo sguardo. Non è la paura a inchiodare tutti al proprio posto, è il peso delle parole. Una persona normale che, per uno schiaffo, ha perso sé stesso, un gesto che può sembrare stupido, ma che ha cambiato il corso di un’esistenza.
“Pensavo che comandare volesse dire essere libero. Ma in realtà ero schiavo. Della paura, del potere, del denaro, dell’orgoglio”. Poi, l’arresto. I processi. E il carcere duro. “Il 41-bis non è solo isolamento fisico. È isolamento dell’anima. Nessun contatto con l’esterno. Nessuna voce. Nessuna carezza. Solo silenzio. Solo muri. Solo te stesso e il tuo passato che ti urla in faccia.Le sue parole sono pesanti come pietre, ma mai gridate. I ragazzi ascoltano, molti con gli occhi lucidi. Non è il racconto di un film. È la cronaca viva di un dolore che ha attraversato una vita intera. Quello che colpisce, più di tutto, è l’assoluta assenza di vittimismo. Non si giustifica, sa di aver sbagliato, sa che è giusto che abbia pagato, non cerca compassione, vuole solo spiegare che ogni scelta ha un prezzo. Il suo sguardo incrocia quello degli insegnanti. “Non sottovalutate mai il potere dell’educazione”. A volte basta poco, una persona vicina, qualcuno che ti ascolta e ti capisce, per avere la possibilità di raccontare una vita diversa. In quelle parole c’è tutto: la denuncia sociale, la richiesta implicita di giustizia e l’appello a non smettere mai di educare.Tre incontri. Tre luoghi diversi. Tre facce della stessa realtà: quella della giustizia, della devianza, della possibilità di cambiamento. Il nostro viaggio non è stato solo fisico, ma interiore. Un attraversamento nel cuore di vite spezzate, nel peso degli errori, ma anche nella forza sorprendente del pentimento, della cura, della rinascita. Dentro il carcere, abbiamo incontrato il confine netto tra libertà e privazione, tra dignità e vergogna. Nei corridoi severi di quella struttura, abbiamo ascoltato voci che parlavano non solo di reati, ma di solitudini, di padri mancati, di silenzi che urlano. Lì, dove il tempo sembra fermo, abbiamo imparato quanto può essere lunga e dolorosa una giornata senza scelta. Nella comunità agricola di Sassari, abbiamo toccato la terra e con essa la fatica e la speranza. Abbiamo visto che anche chi ha sbagliato può seminare, raccogliere, condividere. Abbiamo imparato che il lavoro non è solo una via di riscatto, ma una forma di verità, perché ti restituisce, giorno dopo giorno, quello che sei disposto a dare.E poi, in classe, tra le pareti familiari della scuola, è arrivato l’incontro più disarmante: un uomo segnato dal carcere duro, dal sangue, dal buio. Ma capace di trasformare quella tenebra in racconto, in testimonianza, in avvertimento. Una presenza che ha reso concreto ciò che spesso resta solo nei titoli dei giornali. Il male esiste, ma la coscienza può riemergere. Anche da sotto le macerie più profonde. Cosa resta adesso? Resta uno sguardo diverso. Più profondo, più consapevole. Resta l’idea che dietro ogni storia c’è un volto, e dietro ogni volto una possibilità. Resta l’insegnamento più grande che questi uomini (detenuti, ex detenuti, educatori) hanno consegnato a noi ragazzi: la libertà non è solo un diritto, è una scelta continua, un impegno quotidiano. Per noi studenti, nulla sarà più come prima. La giustizia non sarà solo un argomento di diritto o un articolo di cronaca. Sarà fatta di nomi, di storie, di errori e di ricostruzioni.
Forse, proprio grazie a questa esperienza, sapremo guardare al mondo con meno pregiudizio, con più attenzione, con più responsabilità. Perché l’educazione, quella vera, non si limita a riempire la testa, ma allarga il cuore. E questo viaggio lo ha fatto, in modo indelebile.
Lorenzo Trudu, 4A Liceo Scientifico