29 Apr
29Apr

“Ennesimo caso di femminicidio in Italia: due anni di stalking, ma lei non aveva mai denunciato”. 

Ormai di frasi del genere ne abbiamo lette fin troppe; quanto ancora dovremmo aspettare per far sì che un uomo che compie un femminicidio non venga giustificato per qualche futile motivo? 

Si deve far comprendere che una donna non va uccisa per aver rifiutato un uomo e che quest’ultimo non va giustificato se compie l’atto di ucciderla. 

Al giorno d’oggi, dopo tutte le lotte condotte dalle donne per far riconoscere i propri diritti, questo concetto dovrebbe essere compreso, ma in realtà non lo è, e ciò è causato, in parte, dal linguaggio usato nel racconto pubblico per parlare dei femminicidi. 

Di solito, le parole utilizzate per raccontare di un omicidio di genere sembrano quasi giustificare l’assassino e colpevolizzare la vittima: per esempio, quando si riportano le testimonianze di amici e parenti, si sottolinea il fatto che l’assassino era “un bravo ragazzo che non avrebbe mai ucciso una persona” e di come la vittima, invece, fosse fredda con lui o l’avesse lasciato senza dargli una seconda possibilità. 

Inoltre, ciò che nel racconto pubblico sminuisce la gravità di un femminicidio è la descrizione che viene fatta sia dell’assassino che della vittima: il primo è, nella maggior parte dei casi, rappresentato come un ragazzo schivo, timido e sensibile, quasi incapace di uccidere; la seconda, al contrario, come colei che aveva sottovalutato il pericolo e che non aveva denunciato, colei che “è stata uccisa per troppo amore”; ma dov’è l’amore in un omicidio? 

Uno dei più grandi problemi è proprio questo, che si dipinge il femminicidio come delitto passionale, causato da un amore non corrisposto. A volte, però, nel racconto pubblico non viene subito affermato che questo amore non era ricambiato: in molti articoli che parlano dei femminicidi, le vittime vengono addirittura mostrate in una fotografia in cui si trovano insieme all’assassino, quasi ad affermare che la vittima dovesse stare più attenta a rifiutare l’omicida. Inoltre, mostrando immagini di questo genere al pubblico, la vittima sarà condannata ad essere ricordata come quella abbracciata al suo assassino. 

Pertanto, è estremamente necessario cambiare l’immagine che viene data di un femminicidio: non si deve sottolineare il fatto che lei non avesse denunciato, ma il fatto che l’assassino era ossessionato da lei nonostante il rifiuto e che alla fine l’abbia uccisa solo perché la vittima aveva esercitato il proprio diritto di dire no.

Perciò basta, è ora di dire basta alla violenza di genere nata per un rifiuto ed è arrivato il momento di distruggere l’archetipo della donna sottomessa costruito dalla società, partendo dal linguaggio usato per parlare delle numerose violenze e dei femminicidi. 

Giselle Pelicot ha detto: “Non siamo noi che dobbiamo vergognarci, la vergogna deve cambiare lato perché ci vogliamo tutte vive”. Infatti, il linguaggio usato nel racconto pubblico deve cambiare per far capire che chi si dovrebbe vergognare non è una donna che rifiuta un uomo e che viene violentata e uccisa, ma è l’uomo che violenta e uccide che dovrebbe vergognarsi.

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