31 Jan
31Jan

Il 30 settembre del 1916 a Locvizza il poeta dell’ermetismo Giuseppe Ungaretti scriveva la poesia “In memoria”; non solo il titolo ma l’incipit “Si chiamava/ Moammed Sceab” danno al componimento la veste di un canto in memoria, in questo caso di un amico, Moammed Sceab, che morì “suicida/ perché non aveva più/ patria”, perché aveva perso sé stesso, la propria identità, le proprie radici e tradizioni. Non trovate che l’argomento sia piuttosto attuale? L’immigrazione. Ecco, con questo articolo vorrei affrontare questo difficilissimo tema, facendo anche qualche riferimento a esperienze personali, per ricordare e non lasciare tutto nell’indifferenza. 

Scrivo questo articolo il 25 dicembre; mentre noi siamo soliti trascorrere questa giornata con i nostri cari nel caldo delle nostre case, un neonato è morto nelle gelide acque del Mar Egeo. Con questo non voglio dire che non dobbiamo godere delle felicità della vita, solamente provate ad ascoltare quel pianto, quel dolore, quel sogno infranto... Lo sentite il peso? Io sì, io voglio buttarmi a terra implorando perdono, chiedendo scusa per non avere in qualche modo aiutato, perché la morte di una persona che desidera fuggire in Italia per sopravvivere dovrebbe scalfire le nostre coscienze. Il 3 ottobre del 2013 i motori di un peschereccio libico, lungo circa 20 metri, con a bordo più di 500 migranti di origine eritrea ed etiope, si spensero a poche miglia dal porto di Lampedusa; l’assistente del capitano iniziò ad agitare uno straccio infuocato per chiedere soccorso. Quel fuoco scatenò il panico, lo spostamento delle persone causò il rovesciamento dell’imbarcazione, eppure diverse ore prima il peschereccio era stato avvistato e ignorato. Il 3 ottobre del 2013 a poche miglia dal porto di Lampedusa 368 persone morirono in mare, 368 vite si spensero insieme ai loro sogni e speranze per colpa dell’indifferenza. Questa tragedia è considerata come una delle più gravi catastrofi marittime nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo ma, come avrete capito, ci sono tante tragedie nel Mediterraneo che continuano a verificarsi. Secondo i dati delle Nazioni Unite gli uomini, le donne e i bambini morti o dispersi nel Mediterraneo Centrale dal 2013 si aggirano intorno ai 17.800, di cui quasi mille solo nel 2021. Il 2 settembre del 2000 in una spiaggia della Spagna Javier Bauluz immortala con la sua macchina fotografica la scena che ritrae un cadavere di migrante ignorato da bagnanti. Il cadavere rimase per ore sulla spiaggia nella totale indifferenza dei presenti. 

Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che fanno del male, ma a causa di coloro che guardano senzafare niente”                                              Albert Einstein 

Sorge così la paura che il nostro ego possa addirittura superare tutto ciò che ci circonda, persino una richiesta di aiuto così vicina. Cosa rende il mondo un posto pericoloso? Il male, e cioè la morte del migrante, o coloro che guardano senza fare niente? Io ho avuto l’onore e la responsabilità, da studente dell’I.I.S. “G.A. Pischedda” di Bosa, di partecipare alla “Giornata della Memoria e dell’accoglienza” e alle attività di sensibilizzazione dirette dal Comitato Tre Ottobre presso Lampedusa. Utilizzo il termine “responsabilità” perché ricordare è un dovere, è un’arma contro l’indifferenza. Per l’occasione, infatti, una delegazione di 350 studenti di oltre 20 paesi europei giungevano a Lampedusa per combattere l’indifferenza attraverso la memoria. Perché proprio degli studenti? Perché noi giovani siamo importantissimi, siamo il futuro, siamo la speranza di una vita migliore. Noi giovani possiamo e dobbiamo, possiamo nel nostro piccolo, ma questo piccolo addizionato ad altro piccolo diventa grande. Ricordo con affetto una frase del Musical del Comitato Tre Ottobre che diceva: “Se lasciamo un segno, rimane il segno”. Ecco, questa frase riassume perfettamente ciò che possiamo fare: lasciare un segno. Ero felicissimo, quella frase mi aveva trasmesso la grandezza di noi piccoli. Non potevo fare a meno di avere lo sguardo di un “rozzo ragazzo” innamorato perso. Dopo le prove del Musical, mi sono avvicinato alla parete del Museo del Comitato Tre Ottobre e ho visto una gigantesca lavagna con delle scritte in inglese: “Before I die I want to...” che significa “Prima di morire voglio...”: era un invito a scrivere i propri sogni, i desideri più grandi. Quelle frasi scritte col gessetto mi hanno davvero fatto riflettere: “Prima di morire voglio essere felice e il mondo anche”; “Prima di morire voglio sposare Maria”; “Prima di morire voglio avere una figlia”; “Prima di morire voglio avere un lavoro”; “Prima di morire voglio vedere le tartarughe appena nate”. Io prima di morire vorrei vivere. E tu, cosa scriveresti? Qual è il tuo più grande sogno? 

A Lampedusa ho trovato un clima di fratellanza, uguaglianza, accoglienza e solidarietà. Così ho pensato a un atto che potrei definire accogliente, ho immaginato di abbracciare una persona con immensa felicità, come fosse un fratello. Trovato! Accoglienza è un atto di amore. Dobbiamo capire che in una situazione di ingiustizia, essere neutrali significa opporsi alla giustizia e favorire la violazione dei diritti.

 Khalil Gibran diceva: “Difendere i diritti degli altri è il fine più alto e nobile di un essere umano”. 

Come possiamo agire? Con questo articolo non voglio proporre una soluzione a questo difficilissimo problema, ma mi limiterò a ricordare una formula con la quale sono pienamente d’accordo. Avete presente un certo Immanuel Kant? Ebbene dovete sapere che questo filosofo si è occupato di analizzare l’agire umano ed è giunto ad una conclusione: l’imperativo categorico. L’imperativo categorico è un ordine, un dovere privo di condizioni, per esempio: “Io devo studiare perché devo studiare, non perché ricevo un premio”. L’imperativo categorico è dunque un ordine autoimposto, il risultato di una riflessione guidata da formule: l’azione deve avere la caratteristica dell’universalità, cioè bisogna ipotizzare che la stessa azione venga compiuta da tutti e, al contempo, bisogna ricordare che le persone devono essere trattate come fine e non come mezzi. Quindi per agire moralmente bisogna seguire sempre questa ricetta, ma io consiglio di aggiungerci un po' del nostro amore, perché, come diceva Gandhi, “con la gentilezza, si può scuotere il mondo”. 

Ringrazio il lettore per l’attenzione e spero che questo mio articolo abbia portato a una riflessione.

 Luigi Tanda, V D Liceo classico

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